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Attentati a Parigi, Gendreau-Massaloux: «La diversità è il nostro mondo, va riconosciuto il diritto di ognuno»

«La diversità è il nostro mondo, va riconosciuto il diritto di ognuno e ripensato un nuovo cosmopolitismo, ma siamo obbligati a una fermezza totale di fronte alla violenza».

È chiaro il messaggio di Michèle Gendreau-Massaloux, ospite all’Aurum di Pescara del Festival della Laicità. La Gendreau-Massaloux è rettore emerito della University of the People ed è stata vice segretario generale della Presidenza e portavoce del presidente Francois Mitterrand (1985-1988).

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Festival laicità 2015

Le abbiamo posto qualche quesito in seguito agli attentati che hanno colpito il centro di Parigi venerdì 13 novembre.

Vedendo gli attentati di Parigi qual è stato il suo primo pensiero?

«È stato pensare a ognuna di queste persone come partecipanti di un ampio movimento ciclico, che disgraziatamente non è né la prima né l’ultima volta, ma che ci obbliga a sentire concretamente una emozione totale fino alla famiglia e all’umanità intera. Ogni volta noi perdiamo qualcosa, tra la barbarie di un assassinio e la reazione di rabbia e furore, c’è la resistenza a qualsiasi tipo di violenza che ci obbliga a una fermezza totale».

Il presidente Hollande dice che è stato un atto di guerra e che la Francia è in guerra. È d’accordo?

«Sì. Dobbiamo lasciare che i politici o quelli che hanno responsabilità pubbliche perché eletti democraticamente, scelgano le parole che più servono al proprio progetto di mobilitazione politica della popolazione ferita e che deve reagire. Questo è il dovere dei politici, il dovere di coloro che pensano a lungo termine è alimentare i politici in una visione mondiale che non vuol dire mondializzazione, ma risposta a un cosmopolitismo, perché ogni volta che un movimento di questo tipo fa soffrire il nostro corpo come se la nostra stessa famiglia fosse stata assassinata dobbiamo pensare la questione in termini di inumanità e umanità. Già non siamo più in condizione di pianificare la guerra come si faceva un secolo fa. Le guerre del passato avevano un esercito che o si ritirava o avanzava, ma oggi non è più così. La circolazione mondiale del terrorismo si fa con piccole unità e ognuna di queste si può infiltrare in qualsiasi parte del mondo e gli strumenti di comunicazione che ci fanno sentire in famiglia con amici di tutto il mondo sono gli stessi dei terroristi che per preparare attentati si servono di smartphone, facebook etc. Dunque, forse, la parola che maggiormente risponde a una visione di ieri, oggi e domani è la nozione della forza e della pulsione della morte che esiste in alcune società, in particolare in quelle che soffrirono per il colonialismo e che in un certo modo vogliono provocano una volontà di mattanza collettiva in relazione con un altro totalitarismo prevedibile. Questo è. Dobbiamo affrontare la questione in una maniera nuova così che non so se la parola di ieri potrà servire al progetto di oggi ma comunque è lo scontro di oggi».

Parlando di colonialismo, quanto pesano le politiche europee e americane in Medio Oriente e nord Africa sul terrorismo?

«È una questione difficile perché a volte le armi di coloro che vogliono imporre il proprio ordine si ritorcono contro chi avrebbe voluto, in momento determinato, instaurare regimi dittatoriali. Dunque oggi c’è chi non è d’accordo con la guerra provocata dagli Stati Uniti, io credo con queste circostanze non può esserci un determinato Paese che a volte impone da fuori una visione completamente esterna al Paese fino a quando forze democratiche interne non rispondano con la propria cultura, religione, e valori a una richiesta di un pluralismo. Però penso anche che non si possa sopportare in un determinato Paese che si produca una mattanza collettiva enorme. In ogni caso è una situazione difficile da pianificare. C’è un limite: quando c’è la necessità di intervenire da fuori? Io credo che l’intervento di un Paese solo si possa giustificare se sta in coincidenza con una ispirazione interna, se c’è un livello di aspirazione del popolo con forze interne al Paese che risponde alla richiesta di pluralità, di condizioni, di religioni. Questo è lo sforzo maggiore in ogni Paese, che le forze democratiche interne stiano al fianco della pluralità di partiti, di condizioni religiose, di appartenenza culturale. La diversità è il nostro mondo, è la sola linea possibile affinché noi possiamo stare con gli altri. Se ognuno vive solo ognuno morirà velocemente».

In percentuale quanto è una guerra economica e quanto religiosa?

«Le questioni economiche sempre sono presenti, ma fare il peso esatto è complicato. Io credo che le analisi non possano prescindere né di una dimensione né dell’altra».

Il Papa ha detto che stiamo vivendo la terza guerra mondiale. È d’accordo?

«È la formulazione di una persona che risponde a una visione di una persona che merita il totale rispetto. Io direi che il suo modo di formulare può rispondere a un certo riconoscimento e possiamo fare lo stesso riconoscimento a partire da un’altra considerazione sulla necessità di pensare un nuovo mondo a partire da un nuovo cosmopolitismo, di una nuova visione delle necessità di riconoscere il diritto di ognuno rispetto alla sua fede, i suoi costumi, al suo Paese, alla sua Terra, al diritto di vivere con dignità, con un lavoro, con una casa. Questa è un’altra maniera di formulare l’assunto. Preferisco lasciare a un responsabile di alto rango la parola esatta che corrisponde a questo».