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Bruna D’Albenzio (Tennis Royal Team): una vita tra racchetta e pallina

L’ex tennista Bruna D’Albenzio, costretta per un infortunio ad abbandonare il campo a soli 21 anni, non ha però mai tagliato il “cordone ombelicale” che la lega indissolubilmente con lo sport della racchetta.
Giovanissima ha dato vita al Tennis Royal Team a Montesilvano, una scuola di tennis che cerca di forgiare e far crescere i campioni del futuro, e non soltanto negli aspetti prettamente legati allo sport.

Ecco una lunga intervista nella quale la D’Albenzio si racconta e ci racconta tutti i segreti del tennis e delle sue innumerevoli attività.

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Nonostante la giovane età, hai alle spalle già una lunga carriera più che ventennale nel mondo del tennis sia come giocatrice che come coach, vogliamo ripercorrerla brevemente?
«Ho iniziato per caso, credo sia stata una “predestinata” perché ho conosciuto all’età di 5 anni Mariana Perez Roldan, ex giocatrice mondiale. Fui la sua prima allieva, vide in me qualcosa e in poco tempo mi son trovata nei campi da tennis; da quel momento il mio divertimento è stato solo la racchetta e la pallina. Il mio vicinato ancora oggi si ricorda che girovagavo con la racchetta e mi bastava un muro o qualche amico o bambino incontrato per strada o in piazza per giocare: possiamo dire che per me era un vero e proprio tormento questa attività. La mia coach, dopo nemmeno 3 anni di pratica, mi ha portato al Lemon Bowl, un torneo internazionale Juniores al quale hanno preso parte campioni del calibro di Federer, Nadal e Serena Williams: mi sono classificata seconda. Ovviamente, da quel torneo ce ne sono stati tanti altri, molti dei quali conditi da risultati vincenti. Da piccola mi chiamavano la “russa” perché avevo una grinta e una voglia di vincere fuori dal comune soprattutto in tenera età; d’altronde quando inizi la carriera con una coach come Mariana che ha giocato a livelli alti è come se assaporassi già quel mondo e quel livello. Poi sono stata convocata a 15 anni per giocare a Roma e lì sono entrata nel ITF Juniores, internazionali junior, per poi girare il mondo ed entrare nel Wta. A 21 anni ho smesso per infortunio, quindi mi sono dedicata alla carriera da maestra: non potevo star lontana da questa disciplina. Ho conseguito vari diplomi (fit – uisp-ptr) specializzandomi anche nel tennis per i disabili, acquisendo quindi molta esperienza nel settore. Ho dato il via a svariati progetti con le scuole elementari, medie, licei, Cus, carcere, centri sociali, case famiglia, ospedali, ed eventi collegati al tennis in piazza. In pratica ne ho fatte davvero tante con l’obiettivo di essere competente anche nel nuovo ruolo di maestra. Il fatto di aver dovuto smettere a causa di una preparazione atletica inadeguata ricevuta dopo il ritorno di Mariana in Argentina e prima di andare a Roma, mi ha sempre spinto a essere più che preparata ed esperta: a tutt’oggi non mi fermo mai tra aggiornamenti e progetti vari».

Cosa rappresenta per te questo sport, e da cosa è nata l’idea di aprire una scuola di tennis?
«Questo sport rappresenta personalmente la mia vita. Come disciplina rappresenta un percorso oltre che sportivo anche psicologico: insegna ad avere un totale libero arbitrio, sicurezza di se, umiltà e spirito di sacrificio».

Il tennis è più bello da giocatrice o da coach? Quali sono le differenze tra stare in campo e allenare?
«Entrambi i ruoli sono emozionanti. Da atleta vivi emozioni molto individuali e hai la possibilità di accrescere il tuo spirito in un testa a testa con te stesso. Io credo che questo sia cosa non da tutti perché è difficile fare i conti con sé stessi, vedere i propri limiti e affrontarli per andare avanti. Come allenatore dipende: se sei un atleta allenatore e riesci a combaciare entrambi i ruoli diventa un mix perfetto perché trasmetti la preventiva conoscenza delle emozioni durante una partita così da gestirla, e questo credo valga a tutti i livelli».

Quali sono le tue prerogative e i tuoi obiettivi, e cosa cerchi di trasmettere ai tuoi atleti?
«I miei obiettivi sono sempre circondati dalla racchetta e dalla pallina: far crescere la mia scuola, tramandare ai miei allievi la passione e, qualora volessero dedicarci la loro professione, prepararli come futuri maestri o futuri giocatori. La comunicazione è fondamentale e l insegnamento ha bisogno di essere divulgato. Altra prerogativa è quella di laurearmi in Scienze e Tecniche Psicologiche perché seguo attivamente le case famiglia, e il tennis è risultato un ottimo sostegno. Ciò a cui tengo in maniera particolare è soprattutto dare a Montesilvano quello che un tempo occorreva a me: una scuola professionale e qualificata per imparare bene senza dover essere costretti a espatriare».

Francesco Trisi è il celebre farmacista-mecenate di Montesilvano per il quale il Royal Team ha istituito uno speciale torneo (il Memorial Trisi, appunto) di rilevanza nazionale. Quale è stato il suo ruolo per la tua crescita personale e professionale, ed eventualmente per la nascita della scuola di tennis?
«Trisi mi ha visto crescere con la racchetta in mano ed è stato l’unico che, ancor prima che iniziassi a prendere lezioni, ha immediatamente detto alla mia maestra che ero “portata”; tant’è che quando mi trasferii a Roma mi concesse l’esonero dal pagamento dei campi per farmi allenare qui. Ha sempre voluto che portassi il nome del suo circolo. Per la scuola che ho fondato mi chiamò per vedere se avessi intenzione di tornare in Abruzzo e mi espresse il suo desiderio di dar sede alla mia scuola proprio nel centro sportivo Trisi, dicendomi di renderla una delle migliori scuole».

Chi sono i tuoi “compagni di viaggio” in questa avventura del Tennis Royal Team?
«La prima compagna di viaggio è Carlotta Mascetta, a cui ho tramandato la mia passione: ora è una giocatrice ITF, e ha seguito completamente, partendo da zero, i miei insegnamenti, sia come atleta che come insegnante. È specializzata coi bambini come PTR (Professional Tennis Registry), e prepara i giocatori a livello atletico; è anche il giudice arbitro e direttore di gara dei vari tornei che organizziamo: il tutto, alla giovane età di 24 anni. Poi c’è Luca D’Albenzio, mio fratello, ex campione italiano di full contact, che a 36 anni ha riscoperto il tennis come atleta di 4^ categoria. Quando io e Carlotta siamo in giro per tornei o altro supervisiona e collabora nel mantenimento delle lezioni. Siamo inoltre in convenzione con Adolfo Dolci per ciò che concerne le attrezzature sportive, in maniera tale che i nostri atleti abbiano sempre l’attrezzatura giusta risparmiando. Poi, dietro le quinte ma di fondamentale importanza, abbiamo dei professionisti contabili civili, e siamo sponsorizzati da Wilson. Insomma anche un “Asd” è una piccola azienda sportiva, perciò ha tutti i suoi organi ben pianificati allo scopo di dare un servizio sempre migliore».

La vostra storia parla chiaro: non vi limitate soltanto a “insegnare” a giocare a tennis, ma avete un ricco programma di iniziative parallele e anche extra-sportive e culturali. Qual è quindi l’obiettivo del Royal Team?
«Come detto prima il nostro obiettivo è di proporre una scuola dove si impara il tennis ben sapendo che attraverso il tennis si conquistano qualità che servono anche nella vita quotidiana. Mi riferisco soprattutto a questo momento in particolare, nel quale i ragazzi non hanno bene in mente una vita sportiva e preferiscono piuttosto una vita trasandata, sedentaria e materiale».

Il corso di lingue specifico per il tennis è un esempio delle attività parallele a quelle della racchetta: come nasce e cosa rappresenta?
«Il corso di lingue è nato perché in Italia pochi giocatori sanno parlare altre lingue; quando accompagniamo i ragazzi in trasferta partiamo dal presupposto che devono essere autonomi e potersi confrontare e dialogare con gli altri. Inoltre le lingue sono fondamentali in generale; perciò, con un attività propedeutica specifica, i bambini, oltre a giocare a tennis sanno anche parlare inglese e spagnolo. A tal proposito abbiamo notato che gli stessi bambini, dopo aver fatto quest’attività, hanno migliorato il rendimento scolastico proprio in queste materie; si tratta quindi di un ripasso divertente aggiuntivo».

A livello sportivo e di risultati, come procede la stagione attuale? Avete centrato gli obiettivi che vi eravate prefissati per quest’anno?
«Ogni anno ci prefissiamo a tavolino degli obiettivi perché senza questi e senza motivazioni non si percorre una strada. Il nostro di quest’anno è quello di sempre (cercando di volta in volta di aumentare i dettagli e il livello): formare tutti i nostri allievi rendendoli capaci di arrivare a conquistare il loro traguardo. Il nostro obiettivo è come quello di un azienda: parte dall’apice e si dirama e specializza, quindi gli obiettivi che deve raggiungere ogni allievo, a prescindere dal livello, diventano automaticamente anche i nostri. Direi quindi che agiamo su tanti livelli, ed è per questo che cercheremo sempre di rendere la scuola un posto adatto per realizzare i desideri dei nostri atleti».

Psico-analisi tattica e strategica, oltre a collaborazioni con dottori in psichiatria, figurano tra i servizi offerti dalla vostra scuola. Cosa c’entra il mondo della psicologia con il tennis? E come questi aspetti possono aiutare chi si avvicina a questo sport?
«In qualsiasi disciplina sportiva la prestazione dell’atleta può essere analizzata osservando e studiando l’interazione di quattro aree principali: area tecnica, area tattica, area fisica, area psicologica.
Il tennis, come pochi altri sport, è un’attività di tipo “Open Skill”, cioè a situazioni aperte. La complessità e l’imprevedibilità delle situazioni di gioco fa sì che il tennis sia uno sport a elevato contenuto non solo tecnico e fisico, ma anche tattico e, non ultimo, psicologico. Queste quattro caratteristiche formano un sistema che, come tutti i sistemi, si basa sulla forza e sulla tenuta di tutte le sue componenti. Una debolezza in un’area del sistema determina la debolezza dell’intero sistema.
Qualora un tennista sia preparato tecnicamente, tatticamente, fisicamente ma non mentalmente, ci si troverebbe di fronte ad un tennista dalla preparazione incompleta.
Quindi, se è la testa a fare la differenza occorre allenare la testa a fare la differenza. L’utilizzo delle tecniche di allenamento mentale (mental training) può costituire un importante valore aggiunto nella preparazione del tennista. Quanto più elevato è il livello agonistico dell’atleta, tanta più importanza assumerà la sua preparazione mentale».

Quindi i tuoi studi e le tue esperienze possono essere utili per il tennis e la vita di tutti i giorni?
«Proprio per questi motivi sono iscritta ad oggi alla Facoltà di Medicina, al corso di laurea in Scienze Tecniche Psicologiche. Attraverso gli open skill i bambini affetti da autismo o down o da altre patologie possono essere aiutati: un percorso adattato può risultare utile se lo si affianca alla medicina, e questo è in preatica il ruolo che ho io. Lo stesso vale anche a livello aziendale, dove lo stress lavorativo per il raggiungimento dell’obiettivo di un corpo operativo non facilità la vita quotidiana, e non favorisce propriamente una “calma zen”; perciò dare sfogo e assecondare l’energia repressa in questi contesti con un programma ben seguito potrebbe essere d’aiuto nel vedere il lavoro anche senza stress».

In conclusione si può dire che hai una vita abbastanza piena e ricca di impegni
«Insomma, diciamo che cerco di darmi da fare. La mia vita è concentrata in una parola: tennis!»