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Terrorismo, Mastromatteo: «Identificare Isis e musulmani il peggior errore che si possa commettere»

Ha vissuto in prima persona ed è stato testimone oculare delle principali guerre e rivoluzioni degli ultimi 5 anni in nord Africa e Medio oriente. Ha raccontatro il cosiddetto fenomeno delle “primavere arabe”. Grazie alla sua esperienza sul campo e ciò che ha raccontato come giornalista free lance per testate come Famiglia Cristiana, Avvenire e Manifesto, Gilberto Mastromatteo ci accompagna nella comprensione della genesi del fenomeno migratorio e della sua evoluzione, ma anche nell’analisi dell’Islam, dell’Isis e dei recenti attentati di Parigi.

C’è una relazione secondo lei tra gli sbarchi di immigrati e profughi e il terrorismo?

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«Non vedo relazioni. Se non per il fatto che entrambi i fenomeni sono figli, in maniere diverse, delle crisi che hanno devastato Medio oriente, nord Africa e Sahel negli ultimi anni. E di cui i governi occidentali sono in gran parte responsabili. Il terrorismo attecchisce e fa proseliti nei contesti più instabili. Si ammanta di un islamismo interessato, estorcendo denaro e armi ai governi più corrivi. Quindi innesca spirali di violenza che, di certo, amplificano i flussi migratori. La gente fugge dal terrorismo. Curdi e siriani fuggono dalle bombe di Bashar al Assad, ma anche dalla minaccia di Daesh in Siria e Iraq, i somali scappano da al Shabaab, i nigeriani del nord-est da Boko Haram, i maliani da Aqmi, Ansar Dine e Mujao. Si fugge da conflitti e regimi (come nel caso della Siria ma anche dell’Eritrea) che sono tollerati, quando non creati, dallo stesso Occidente. Si fugge, com’è ovvio, dalla povertà. Che qualche terrorista possa giovarsi dei canali migratori per coprire i propri spostamenti, può essere un fatto. Ma teorizzare il sillogismo migranti-terrorismo mi pare folle».

Quanto pesano le politiche europee e americane in Medio Oriente e nord Africa sul terrorismo?

«I governi occidentali (soprattutto statunitense, britannico e francese) con le loro politiche, hanno delle precise responsabilità su quanto sta accadendo oggi in quei quadranti e in Europa. Daesh nasce in Iraq, subito dopo gli sconsiderati attacchi americani del 2003 che decapitarono sì il sanguinario regime di Saddam Hussein, ma lasciarono il Paese in preda alla guerra civile. Le sollevazioni siriane del 2011 chiedevano la fine dell’altrettanto sanguinario regime di Assad. Si sono trasformate in un conflitto cruento, nel pressoché totale disinteresse occidentale, almeno fino al 2014. Il Califfato è cresciuto dentro questa instabilità. In Libia, invece, si intervenne subito, nel 2011, per scacciare un altro dittatore sanguinario, Mu’ammar Gheddafi. Fu la Francia di Sarkozy a lanciare le operazioni. Anche qui, non si pensò al dopo, scaraventando il Paese in una contesa armata che va avanti da un lustro. In tutti questi contesti, le scelte occidentali hanno certamente favorito l’insorgenza di Daesh».

Quanto si sbaglia nell’identificare l’Isis con tutti i musulmani, anche quelli che vivono in Italia?

«Credo sia l’errore peggiore che si possa commettere. Lo Stato islamico, o Califfato o Daesh che dir si voglia, è un progetto politico e militare sorto tra Iraq e Siria. L’utilizzo che fa della religione (l’Islam sunnita) è puramente strumentale al reclutamento e al raggiungimento di obiettivi di tipo economico e territoriale. Secondo le fonti più generose, quelle curdo-irachene, conterebbe fino a 200 mila adepti. L’Islam è una religione professata nel mondo da un miliardo e mezzo di persone. Solo in Italia i musulmani sono un milione e mezzo. Un titolo come “Bastardi islamici”, pubblicato dal quotidiano Libero all’indomani dei fatti di Parigi, è fuorviante e pericoloso».

Secondo lei è più una guerra di tipo economico (per petrolio, gas e questioni geopolitiche) o religiosa?

«Mi sento di poter escludere la guerra di religione. Lo “scontro di civiltà” evocato talvolta da certa politica e certa stampa, è in realtà uno “scontro di viltà”. La violenza cieca del Daesh è stata a lungo sopportata – e supportata a suon di armi – da Occidente e Russia, nel suo insanguinare la Siria e l’Iraq. É strumentale al mantenimento di un macabro status quo, dal quale è rischioso uscire. Oggi quella stessa violenza, giunta in Europa sotto forma di terrorismo, fornisce ai governi nuove occasioni per interventismi militari interessati e per la sospensione di Shengen».

Lei ha vissuto molti degli ultimi fatti del recente passato del nord Africa: le popolazioni di questi Paesi come hanno vissuto le guerre come quella in Libia?

«Il 2011 è stato un anno importante per il nord Africa e non solo. Direi per tutto il mondo arabo. Le cosiddette “primavere arabe” vengono oggi da più parti vituperate, quasi sia da ricercare in quelle sollevazioni il germe delle attuali crisi. In realtà le rivolte popolari in Tunisia, Egitto, Libia, Yemen e anche in Siria, sono state delle occasioni importanti di emancipazione per quei popoli, sia dai regimi militari che dall’Islam politico. In tutti i Paesi interessati sono sorti movimenti giovanili di piglio laico e progressista, ispirati a valori democratici e liberali. Penso al movimento 6 aprile in Egitto, iniziatore della rivoluzione di piazza Tahrir e oggi dichiarato fuori legge. Si opponevano sia ai Fratelli musulmani di Mohamed Morsi sia alla “democrazia militare” dell’attuale capo di Stato Abdel Fattah al Sisi. Simile è la parabola di analoghi movimenti in Marocco, Tunisia, Libia e Siria. Credo che le democrazie occidentali, soprattutto i governi di sinistra, non abbiano fatto abbastanza per dare il giusto supporto a queste esperienze».

Che cosa legge nei volti di chi cerca di imbarcarsi e venire in Europa?

«C’è il rammarico di dover abbandonare le proprie città, le proprie famiglie e c’è l’entusiasmo per un nuovo inizio in una terra che si crede accogliente e ricca di opportunità. Al di là di ogni retorica, i volti dei migranti che ho incontrato in questi anni si somigliano tutti, a ogni latitudine. E credo somiglino a quelli del passato. Come i dimenticati emigranti italiani».

Quanto è corrispondente alla realtà dei fatti ciò che la maggior parte dei media fa sapere?

«I media forniscono informazioni. E mai come in questo momento hanno una responsabilità importante, nel verificare fonti e contenuti. Dovrebbero accompagnare le informazioni con analisi il meno possibile sprovvedute, sensazionalistiche e sociologicamente carenti. Dipingere alcuni dei nostri quartieri (vedi Tor Pignattara a Roma) come delle centrali di reclutamento del fanatismo islamista, non credo possa essere definito buon giornalismo. Così come credo che staccare la spina, cessando di mostrare i video diffusi dal Daesh, non sia una soluzione. È dando di esso un’immagine spettacolarizzata e acritica che si rischia di alimentare psicosi e di diventare involontari fiancheggiatori del reclutamento Daesh».

PescaraPost

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